Contratti, codice etico e … “buon costume”
L’Avvocato d’impresa

Contratti, codice etico e … “buon costume”

Con questo mio articolo voglio lanciare uno spunto di riflessione sul contenuto dei contratti nei quali è richiamata l’adesione al “Codice etico” di una delle parti, di solito quella contrattualmente più forte, i cui principi “etici” enunciati con grande enfasi, alle volte, non trovano riscontro in alcune clausole contrattuali. In proposito richiamo alcuni miei recenti scritti “Le Condizioni generali di Contratto e il delicato equilibrio della tutela degli interessi delle parti” e “Il contratto come fattore di rischio per l’impresa (?)”[1] per, in un certo senso, proseguire nell’analisi circa il contenuto dei contratti in genere.

Con l’avvento del D.Lgs 231/2001 che ha introdotto la responsabilità amministrativa/penale delle società, è stato tutto un proliferare di “Codici etici” più o meno articolati a seconda delle dimensioni e campi operativi delle aziende. Essi, in sintesi, non sono altro che una carta dei diritti e dei doveri fondamentali dove vengono definite le responsabilità etico-sociali (sia verso l’interno, che verso l’esterno) dell’impresa e i valori che abbraccia.

In essi si legge sempre il richiamo ai doveri di condotta della società e di tutte le sue componenti umane, secondo i principi di buona fede, diligenza e correttezza anche nei rapporti con i clienti e fornitori e viceversa, il tutto ricompreso nel concetto più generale di “Etica negli affari”. Spesso, anzi è ormai prassi consolidata, il mancato rispetto del Codice etico da parte del cliente o del fornitore è sanzionato addirittura con la risoluzione espressa del contratto per sottolineare oltremodo l’importanza dei doveri di condotta in esso enunciati. Leggendo però i contratti non sempre ritroviamo, di fatto, il rispetto di tali principi come da me evidenziato in alcuni passaggi nell’articolo “Il contratto come fattore di rischio per l’impresa(?)”.

Cosa fare, allora, se leggendo un contratto che prevede espressamente l’adesione al “Codice etico” di una delle parti ci si accorge che proprio quella che ne richiede il rispetto se ne allontana “imponendo” alcune clausole che poco hanno a che vedere con il concetto di “etica negli affari” secondo il suo intrinseco significato di insieme di norme morali e delle regole di condotta che permettono di condurre affari in maniera universalmente riconosciuta come corretta, onesta e trasparente?

Il mancato rispetto dell’etica negli affari, siccome sempre enunciata nei Codici etici delle aziende, può essere la chiave per invalidare un contratto superando quell’orientamento pacifico secondo il quale la buona fede oggettiva (Artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c.) rappresenta solo una regola di comportamento la cui violazione integra soltanto una responsabilità risarcitoria?

In una sentenza di qualche anno fa (Sent. n.16706/2020) la Cassazione ha esteso il concetto di “buon costume” ritenendo che in esso devono essere ricompresi, quali valori etici della morale collettiva, anche i canoni generali di “correttezza e buona fede oggettiva” e non soltanto, come comunemente inteso, quelli che riguardano le regole della morale sessuale o della decenza. Con questo arresto giurisprudenziale la Corte, come ben argomentato dalla Stefania Pia Perrino in un suo scritto del 2021 pubblicato sulla rivista “Ius In itinere” al quale mi riporto, ha voluto dare seguito ad un concetto che già la dottrina aveva evidenziato secondo il quale il “buon costume” deve caratterizzarsi per un più ampio spettro, comprensivo di tutti quei principi che caratterizzano le convinzioni etiche e la morale sociale di un contingente periodo storico di riferimento avendo come riferimento ciò che un contraente di media correttezza e lealtà si sente di fare o di non fare (G.Iorio).

Da ciò l’affermazione secondo la quale la nozione di negozi (giuridici) contrari al buon costume non può essere limitata ai negozi contrari alle regole del pudore sessuale e della decenza, ma deve estendersi fino a ricomprendere i negozi contrari a quei principi ed esigenze etiche della coscienza morale collettiva che costituiscono la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il proprio comportamento la generalità delle persone corrette, di buona fede e di sani principi, in un determinato momento ed in un dato ambiente.

Quanto sopra significa, cercando di rispondere al quesito che ho posto all’inizio, che se i principi di correttezza e buona fede oggettiva rientrano a pieno titolo nella nozione di “buon costume”, i contratti che violano i valori etici della morale collettiva e, aggiungo, ancor di più quelli che violano l’Etica negli affari enunciata nei vari Codi etici delle aziende, sono passibili di invalidità perché contrari al buon costume (Art. 1343 c.c.) per illiceità della causa.

L’argomento, ovviamente, è ben più complesso e articolato di quanto io abbia espresso ma, ripeto, il mio vuole essere solo il tentativo di far riflettere le Aziende e gli imprenditori sull’importanza che alle dichiarazioni di principio (Codici etici) seguano, poi, fatti concreti come la predisposizione di contratti che siano effettiva manifestazione di tali principi e della più generale “Etica negli affari” come sopra intesa, nel rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Avv.Rodolfo Faccini

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